Filippo Turetta ha rinunciato all’appello dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, ma la legge apre comunque uno spiraglio alla libertà: ecco cosa può succedere davvero.
Filippo Turetta, condannato all’ergastolo per il brutale femminicidio di Giulia Cecchettin, ha scritto una lettera, di suo pugno, rinunciando ufficialmente all’appello. Un gesto che, almeno in apparenza, suona come una confessione piena di pentimento. Ma basta questo per mettere un punto alla vicenda giudiziaria? Spoiler: assolutamente no.
Anche se Turetta ha deciso di non proseguire in seconda istanza, sarà comunque la giustizia a farlo. Infatti, la Procura ha già impugnato la sentenza di primo grado, chiedendo il riconoscimento di aggravanti pesanti, tra cui la crudeltà – quella che si legge tra le righe di 75 coltellate – e l’aggravante del femminicidio preceduto da stalking, con più di 1.200 messaggi ossessivi inviati alla vittima.
Quindi sì, si andrà in appello. Ma cosa succede se Turetta si comporta bene in carcere? La risposta è tanto legale quanto sorprendente.
Può davvero tornare libero un ergastolano?
Sì, la legge italiana prevede spiragli anche per chi è condannato al carcere a vita. Secondo quanto spiegato dal giudice Valerio de Gioia, magistrato presso la Corte d’Appello di Roma, Turetta potrebbe ottenere i primi permessi premio già dopo 10 anni di carcere. Basta una condotta esemplare e l’assenza di pericolosità sociale. E non è tutto: a 48 anni – cioè dopo 26 anni di reclusione – potrebbe persino ambire alla liberazione condizionale, se il suo pentimento sarà giudicato autentico.
Nessuna delle aggravanti riconosciute in questo caso (neppure quella della crudeltà) preclude questi benefici. Solo i reati “ostativi” come mafia o terrorismo impediscono l’accesso a questi strumenti.
In sintesi: ergastolo non significa automaticamente fine vita in carcere. Anzi, il comportamento durante la detenzione può aprire, gradualmente, la strada a una parziale – o totale – libertà.
Chi pensa che la rinuncia all’appello sia solo una mossa emotiva, forse sottovaluta l’effetto che ha nella fase esecutiva della pena: questo gesto può essere interpretato come un segno tangibile di pentimento e potrebbe rendere più celere l’accesso ai benefici penitenziari.
Un pentimento strategico?
Il caso Turetta, al di là del dolore che ha causato e del clamore mediatico, solleva una questione spinosa e scomoda: può una pena come l’ergastolo non essere davvero “a vita”? La legge lo permette, e forse è giusto così: il diritto penale italiano si fonda anche sulla possibilità di riabilitazione. Ma cosa succede quando la società non è pronta a perdonare?
Personalmente, credo che ci sia una distanza abissale tra la giustizia formale e quella che la gente comune percepisce come “giusta”. La possibilità che Turetta, pur condannato, possa un giorno tornare libero è un pugno nello stomaco per chi crede che certi reati debbano chiudere per sempre la porta alla libertà. Ma questa è la legge: imparziale, fredda, e spesso in contrasto con l’emotività collettiva.
E voi cosa ne pensate? È giusto che anche chi ha commesso un femminicidio possa, un giorno, uscire dal carcere?
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